Lascia l’immagine di un signore chic e ben vestito, con un’orchestra piena di violini quasi hollywoodiani che seducevano la buona società.
Classe, distinzione, buone maniere, così doveva essere il destino del piccolo Osvaldo, che nacque in una famiglia altolocata (suo padre era un uomo d’affari e sua madre un’insegnante di pianoforte) nel 1894, in un’epoca in cui il tango non è che un affare di mascalzoni della periferia di Buenos Aires. Eppure i suoi genitori, anche se controvoglia, lo mettono in contatto con questo mondo quando si trasferiscono a la Paternal, un quartiere piuttosto modesto. Ed è qui che scopre il tango e, con gran dispiacere di sua madre, si da al bandoneon.
Senza nemmeno vergognarsi del suo colpevole passatempo, non esita a montare un trio con suo fratello Emilio al violino e un chitarrista, poi inizia una tournée trionfale nei caffè della zona, dove si guadagna il soprannome di Pibe de la Paternal, per distinguerlo dal Pibe de Flores, il bandoneonista Pedro Maffia. Eduardo Arolas lo nota, lo fa suonare al cabaret Montmartre e Roberto Firpo lo invita a suonare al Royal Pigalle. Queste sponsorizzazioni prestigiose contribuiscono a lanciarlo.
Testa un duo di bandoneon e poi un trio con Juan Carlos Cobian al pianoforte, che è un compositore immenso, autore tra le altre di “Los mareados” e “Nostalgia”. La ricerca musicale di questa formazione si rivolge alle classi agiate, che scoprono che c’è una moda di tango a Parigi e non vogliono essere da meno.
Questi musicisti cominciano a lavorare sulle sfumature e i legati mantenendo comunque una pulsazione marcata, caratteristica del tango che, se era essenzialmente ritmo, con Cobian e Fresedo diventa anche armonia.
Nello stesso periodo, nel 1917, suona in un’orchestra diretta da Firpo e Canaro. Poi l’anno seguente monta il suo gruppo, dove suona un violinista che diventerà celebre qualche anno più tardi rivoluzionando il genere: Julio De Caro.
Successo totale. L’orchestra è di moda.
Nel 1921 la compagnia Victor gli trova degli ingaggi negli Stati Uniti. Parte con Enrique Delfino, il violino romantico del tango, e ci monta la Orchestra Tipica Select. Di ritorno a Buenos Aires, rimonta il suo sestetto con Cobian al piano, e occupa tutte le sale da ballo più aristocratiche dove diffonde un tango di bon ton.
Gli affari vanno bene. Continua a registrare per la Victor e poi per Odéon. Arriva ad avere fino a 5 orchestre che suoneranno in posti diversi allo stesso tempo. Piccolo problema di organizzazione e ubiquità: doveva mostrarsi in ciascuno di questi luoghi. “Osvaldo Fresedo salutava, faceva il suo sorriso più bello di un uomo nel fiore degli anni, agitava la sua bacchetta e cambiava luogo. Per breve che fosse, la sua presenza rallegrava sempre tutto l’auditorio”.
Una di queste orchestre era diretta al pianoforte da un giovane Carlos di Sarli, sul quale è un po’ difficile sapere quale abbia influenzato l’altro nei decenni seguenti.
La sua carriera prosegue senza ostacoli. Si adattava al gusto del pubblico, preoccupato di comporre belle melodie che piacessero ai ballerini, “delle melodie fatte per danzare su bei parquet sotto le luci soffuse dei lampadari in cristallo di rocca”.
Il suo stile evolverà sempre più verso un legato, in cui i suoi violini sono più languidi ancora di quelli di Di Sarli degli anni ’50, quasi hollywoodiani.
E’ sorprendente il contrasto tra le sue registrazioni per la RCA Victor degli anni ’30, dove i legati dei violini sono presenti ma il ritmo soprattutto al piano resta marcato, e le registrazioni posteriori dove i violini dominano chiaramente e perfino sommergono la pulsazione.
La sua versione di “El Enterriano” degli anni ’30, “Polya”, o anche la sua “Cumparsita” registrata nel 1944 sono riconoscibili a fatica da quelli che lo associano spontaneamente alla sua tuba di “Vida mia”.
Ha ovviamente lavorato con dei cantanti: Roberto Ray, Ricardo Ruiz e Oscar Serpa sono i più conosciuti.
Cantanti da cui si aspettava una raffinatezza vocale in rapporto a quella dell’orchestra.
Non possiamo tuttavia rimproverargli di aver composto poco, né di non aver cercato di arricchire il vocabolario sonoro del tango. Come Canaro che era arrivato perfino a testare l’inserimento di un ukulele nella sua orchestra, ha osato introdurre diversi strumenti insoliti come l’arpa, il vibrafono, i cembali, le castagnette. L’idea del vibrafono è stata inoltre ripresa dall’orchestra di Florindo Sassone. Non ha nemmeno esitato a riprendere le opere di Piazzolla, cosa che non è stata sempre accettata nel mondo del tango.
Ha ugualmente collaborato con dei musicisti venuti da altri orizzonti: dei tenori italiano come Tito Scipa, per esempio, ma anche il trombettista di jazz Dizzy Gillespie per una versione memorabile di “Vida Mia” nel 1956.
L’Opera di Parigi gli ha aperto le sue porte, come la Filarmonica di New York che Toscanini gli chiese di dirigere. Infine, ha registrato con Carlos Gardel.
In breve, una carriera prestigiosa e di una longevità eccezionale, che finisce con la sua morte nel 1984.
La sua tuba inconfondibile è ovviamente quella di “Vida mia”, un brano efficace e ispirato che farebbe innamorare qualsiasi tanguero, e che esiste in numerosi versioni tra le quali quella con Gillespie. Non si può non citare la strepitosa “El once”, “Pimienta”, “Sollozos”, “Ronda de ases”, “Despuès del carnaval”.
Liberamente tradotto da: http://www.toutango.com/OSVALDO-FRESEDO-un-monsieur-chic-dans-l-univers-du-tango_a301.html