Venezia è una città circondata dalle acque ma allo stesso tempo priva naturalmente di acqua dolce. Come hanno fatto i veneziani nei secoli passati a rifornirsi di acqua potabile? Scopriamo insieme, ancora una volta, come il loro ingegno e la loro straordinaria capacità di adattamento abbiano permesso di risolvere in maniera brillante anche questo problema, attraverso i pozzi.
Come funzionavano i pozzi veneziani
I pozzi veneziani non sono artesiani, perché nel sottosuolo c’è solo acqua salmastra. Sarebbe più corretto quindi chiamarli pozzi cisterna, perché sono stati costruiti per raccogliere e conservare l’acqua piovana, utilizzabile come acqua potabile.
Una soluzione che per lungo tempo ha consentito a Venezia di avere quel minimo di acqua dolce necessaria alla città. Ma com’erano fatte queste straordinarie piccole opere di ingegneria? Sulla sommità vi era una vera da pozzo, in pietra d’Istria o marmo, abbellita con decorazioni a bassorilievo e chiusa da coperchi di metallo che venivano aperti dal capo contrada al suono della campana da pozzi.
Sotto ad ogni vera da pozzo c’era una buca, profonda circa 4 metri e con una larghezza molto variabile che dipendeva dallo spazio a disposizione. Dai pochi metri per i pozzi nelle piccole corti a diametri più importanti per sfruttare le grandi superfici dei campi pubblici, delle corti dei palazzi privati o dei chiostri dei monasteri, dove di pozzi ce ne potevano essere anche più di uno.
Questa buca era isolata con creta così da renderla impermeabile all’acqua salmastra, che avrebbe inquinato quella dolce. Veniva poi riempita di sabbia che serviva a filtrare e depurare l’acqua piovana, che vi entrava attraverso le pilelle, pietre forate che ancora oggi si possono vedere attorno alla vera da pozzo.
La Seriola, gli acquaroli, i burchi e i bigolanti
Con un sistema di questo tipo e con una popolazione assai numerosa come quella di Venezia di un tempo, è facile capire che l’acqua piovana raccolta dai pozzi non fosse sufficiente al fabbisogno della città, soprattutto in periodi particolari come in caso di siccità.
Grandi quantità di acqua dolce venivano quindi prelevate e trasportate dal Brenta. Per questo motivo all’inizio del Seicento venne realizzata la Seriola, un canale non navigabile che portava le acque del fiume, in prossimità di Dolo, fino ai margini della laguna presso Fusina, per agevolare il trasporto dell’acqua a Venezia.
Gli addetti a questo trasporto erano gli acquaroli, il cui compito era il prelievo dell’acqua dolce e il trasporto con burchi dalla terraferma a Venezia dove veniva versata nelle cisterne oppure consegnata direttamente alle manifatture che ne avevano bisogno. A questo scopo si utilizzavano particolari imbarcazioni, i burchi.
Esisteva anche un sistema di vendita a domicilio svolto dai bigolanti, un mestiere effettuato principalmente dalle donne, che portavano sulle spalle un lungo bastone arcuato a cui legavano due secchi alle estremità e che vendevano l’acqua direttamente alle case e ai negozi. Alla fine del Settecento i bigolanti erano circa un centinaio.
L’acquedotto di Venezia
Prima della costruzione dell’acquedotto a Venezia c’erano circa 600 pozzi, la maggior parte privati e molti in cattivo stato. Nel 1874 si decise di costruire l’acquedotto prendendo le acque dalla Seriola. Con un sistema di condotte sublagunari l’acqua potabile arrivò a Venezia e in un secondo momento anche a Murano, alla Giudecca e al Lido.
L’acquedotto fu inaugurato il 23 giugno 1884, e per l’occasione tutta piazza San Marco fu illuminata a giorno e al centro fu allestita una fontana. Ben presto però si dovette trovare un’alternativa alle acque della Seriola perché non erano abbastanza pulite. Furono quindi scelte le sorgenti di Sant’Ambrogio a Trebaseleghe, in provincia di Padova, le stesse utilizzate ancora oggi.
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